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di Rosita Boschetti

cavalla storna e madreSiamo nel 1903. All'indomani dell'uscita della poesia La cavalla storna sul Giornale d'Italia, un'ammiratrice di Giovanni Pascoli gli invia alcune lettere da Fermo, commossa dopo la lettura del testo poetico che aveva generato in lei un'impressione profonda, vivissima, il tumulto dei sentimenti e affetti risvegliati nel cuore.

Maria Fabbri Pichi, questo il nome della donna che – continuava nella lettera - non poteva nascondere a Pascoli l'effetto di una conversazione alla quale aveva preso parte, in Romagna (ai Bagni di Cattolica), nell'anno precedente, scriveva:
Si parlava del processo Palizzolo, chiuso in quei giorni, e che io (Dio mi perdoni se sono in errore nefando ma fermamente non lo credo) mi compiacevo di aver visto terminare con una severa condanna; perchè se è indubbio che è meglio veder un colpevole assolto che un innocente comdannato, non è men vero che l'impunità degli assassini è un grande incentivo al delitto, ed esaltavo la nobile anima invitta di Leopoldo Notarbartolo che per dieci anni con una costanza adamantina ha ricercati con la sola forza del suo amore e del suo dolore, gli assassini del padre, e ricordavo il gesto di lui quando alle assise di Milano lanciò la terribile accusa che fece sospendere il processo: “il mandante dell'assassinio di mio padre è l'On. Palizzolo”.

Proprio nel 1902 Raffaele Palizzolo, deputato alla Camera dal 1882 al 1900, a Bologna era stato giudicato colpevole e condannato a 30 anni di reclusione come mandante dell'omicidio di Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia. Palizzolo, colluso con la mafia locale, aveva pagato due sicari per eliminare Notarbartolo.

È evidente come questo delitto avesse riacceso l'antica rabbia in Pascoli, portandolo ad approfondirne la dinamica, avvicinandosi al figlio della vittima, Leopoldo Notarbartolo, col quale intratterrà un carteggio.

Maria Fabbri Pichi continuava nella sua lettera al Poeta:
Fu allora che un avvocato romagnolo mio parente interloquì: “Il caso Notarbartolo, disse, ha un'estrema analogia col delitto nefando accaduto nella nostra regione molti anni fa; il povero Pascoli, la nobiltà d'anima, l'onestà fatta persona, fu spento a San Mauro per gli identici motivi; il suo assassino è ancora impunito, come lo fu già per dieci anni il Palizzolo, ma il suo nome è ben noto nella nostra Romagna e lo disse in tutte lettere. L'anima mia, assetata d'amore e di giustizia umana risentì una impressione vivissima alla rivelazione, tanto più che se m'era ignoto l'assassino e il povero assassinato, m'era notissimo (per fama s'intende) il figliolo di quest'ultimo […].

Si tratta di un documento prezioso, una testimonianza risalente al 1903, grazie alla quale trova conferma l'ipotesi più accreditata, la stessa della famiglia Pascoli, cioè che il principale mandante del delitto di Ruggero Pascoli, fosse Pietro Cacciaguerra. Ancora più importante la puntualizzazione della signora Fabbri Pichi rispetto a ciò che aveva sentito con le sue orecchie: Ruggero Pascoli era stato ucciso per gli identici motivi di Notarbartolo e il nome del mandante, ben noto in Romagna, era stato pronunciato a chiare lettere da un avvocato romagnolo suo parente.

Perchè si parla anche per Ruggero Pascoli dello stesso movente? Notarbartolo era un uomo di specchiata onestà, che era stato sempre più isolato, in mezzo a comitati d'affari politico criminali in ascesa. Due famiglie, quelle di Pascoli e Notarbartolo, sole nello scontro con depistaggi e malagiustizia a protezione dei potenti.

L'ammiratrice di Fermo continuava a scrivere al poeta, riferendosi molto chiaramente al Cacciaguerra:
Immagina ora lei quel che m'è passato nel cuore leggendo ieri l'ultima strofa dell'ode sua? Ah! Quel nome che la povera bocca materna deve aver pronunciato tremando; quel suono guerresco della parola cui la cavalla ha risposto coll'alto nitrito, come sono chiari per noi che sappiamo, come devono essere sprone alla ricerca per quei che non sanno! Certo il concetto che informa questa sua ode, di una soggettività così commovente e sincera, Dio deve averlo ispirato e indubbiamente qualcuno ieri deve aver impallidito alla lettura e il foglio forse sarà caduto dalle mani tremanti!

Questa lettera inviata da una donna completamente sconosciuta a Giovanni, deve aver colpito nel segno, toccando le corde del suo animo, se a pochi giorni di distanza il poeta rispondeva alla Fabbri Pichi con una lunghissima lettera in cui spiegava come fossero andate le cose rispetto all'omicidio del padre. E Pascoli, che da ragazzo aveva disperatamente cercato di capire come fossero andate le cose, conferma alla donna i suoi sospetti, scrivendole, rispetto alla poesia La cavalla storna:
nella quale non è sogno o fantasia, ma verità assoluta. Mia madre, sì, andava a interrogare la cavalla, per sapere se un suo sospetto, che era sospetto di tutti, fosse realtà.

Non solo il poeta conferma che il sospetto di tutti era della stessa madre, la quale bene conosceva Cacciaguerra (il suono guerresco della parola), colui che inspiegabilmente, all'indomani del delitto, aveva affiancato il funzionario dei Torlonia, nella gestione della Torre.

Egli prosegue, riferendosi a Notarbartolo:
Quanto all'assassino, o meglio dire, agli assassini, ecco la somiglianza, anzi l'identità col fatto truce del povero Notarbartolo. Gli assassini nostri, come quelli di Notarbartolo, furono e saranno impuniti, per la, non trascuratezza soltanto, ma vera e propria connivenza della polizia e delle autorità politiche.

Per trovare il mandante del delitto, occorevva – afferma Pascoli – trovare gli esecutori, i quali erano stati visti da due donne. La polizia invece aveva seguito una falsa pista, suggerita probabilmente in un giornale dagli stessi assassini, arrestando persone che non c'entravano nulla. Un delegato che aveva preso a cuore la cosa era stato trasferito, la relazione del pretore sparita. Senza farne il nome, Pascoli infine accenna nella lettera al Cacciaguerra:
Il signore di Roma venne molti giorni dopo, e si vide che era in relazione con alcuni personaggi dei paesi vicini, principalmente con quello a cui ella allude. Tutte queste circostanze dovevano essere vagliate dalle autorità! […] Gli autori sono certi dell'impunità!

Il funzionario di Roma dei Torlonia era Achille Petri, colui che il giorno del delitto Ruggero aveva aspettato invano. Come conferma il poeta, Petri era in relazione già da tempo con Cacciaguerra ed altri, avendo architettato tempi e modalità dell'esecuzione. E potevano aver agito tranquillamente, nella certezza che l'impunità sarebbe loro stata garantita da un uomo potente, come per esempio Torlonia.

Continua...

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