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MILANO (4 febbraio 2005) - Una doccia fredda. Anzi, gelida: gli ultimi dati sulla produzione industriale made in Italy, dicono che a novembre 2004 le perdite maggiori le hanno vissute i settori della pelle e calzature che, rispetto al mese prima, hanno perso il 16,3%. L’altro settore modaiolo, il tessile abbigliamento, ha contenuto la perdita al 9,6%.

A confermare lo scenario nero della scarpa tricolore sono usciti anche i dati l’Anci (l’associazione di categoria) che in estrema sintesi dicono che, dopo aver perso mediamente il 10% nei bilanci del 2002 e del 2003, nei primi nove mesi dell’anno scorso i calzaturieri italiani hanno lasciato per strada un altro 5%. “Una situazione molto grave. Nei fatti il 2004 — racconta il presidente dell’Anci, Rossano Soldini – è il terzo anno consecutivo di congiuntura negativa. E il futuro non si prospetta migliore. A meno che vengano rese operative le richieste che abbiamo presentato nei giorni scorsi ai ministri competenti, con l’obiettivo di permettere ai produttori italiani di giocare ad armi pari con i concorrenti di Cina e Estremo Oriente". Concorrenti che si fanno sempre più agguerriti. Basta dire che negli ultimi dieci anni, solo dal Celeste Impero le importazioni sono cresciute del 250%. In pratica il numero di scarpe "gialle" che ogni anno arriva nel Bel Paese, è passato da 29 a 102 milioni di paia. “Adesso con lo smantellamento delle quote iniziato dal 1 gennaio 2005, saremo inondati”, dicono i calzaturieri.

“Siamo abituati a fronteggiare la concorrenza dei paesi che producono a basso costo. Sono almeno trent’anni – dice Franco Ballin, imprenditore di suo e vice presidente dell’Anci – che li battiamo su tutti i mercati del mondo con la semplice arma della qualità. Con la forza del made in Italy. Ma adesso stiamo giocando una partita persa in partenza con un rivale che per competere usa il dumping valutario sociale e ambientale”.

Fino a oggi, Ballin e gli altri imprenditori del distretto del Brenta hanno risentito meno di altri la concorrenza, poiché il migliaio di aziende che lavora da quelle, parti produce per le migliori firme del mondo. E, per adesso, la forte competizione si sente sulle fasce basse. Ma la perdita di competitività dovuta all’effetto dollaro e alle barriere doganali a senso unico, bene o male il loro peso cominciano a farlo sentire. “Ma soprattutto — fa notare Soldini — non si può pensare che tutti si concentrino sull’alto di gamma, sul lusso. E’ una fascia troppo stretta per dare lavoro alle migliaia e migliaia di piccole e medie aziende di scarpe made in Italy. Dunque, ci vuole reciprocità”. “Noi produttori italiani – incalzano i vertici dell’Anci — abbiamo dazi del 2830 per cento e i nostri concorrenti il 6”.

“Certo è che per mettere in pratica le contromisure necessarie, dobbiamo ragionare con una logica europea”, dice l’imprenditore e designer Vito Artioli che di estero ne sa qualcosa: il 99% delle collezioni che escono dai suoi stabilimenti di Tradate (“destinate a un pubblico molto selezionato”, tiene a dire) prendono la strada delle capitali mondiali della moda. Ma soprattutto dal suo osservatorio di presidente del Consorzio europeo moda e calzature suggerisce: “Dobbiamo imparare a fare partnership produttive, distributive con gli spagnoli, i francesi e tutti gli altri. Difendere il made in Italy contro un gigante come la Cina è un’impresa titanica”.

Dello stesso avviso GianBeppe Moreschi, presidente della storica azienda di Vigevano che in controtendenza rispetto alla crisi del settore, a settembre dell’anno scorso ha fatto un investimento corposo aprendo un grande stabilimento (super attrezzato con annesso asilo nido per i figli dei dipendenti) dove ha riunito tutte le attività. La ricetta Moreschi per spalmare il rischio paese, è stato quello di diversificare moltissimo i mercati dell’export. Grosso modo, non più del 10% delle produzioni per ciascun paese. Con due grosse ripartizioni: 50% Europa (di cui 25% Italia) e 50% resto del mondo.

“Ciò nonostante – dice in proposito Moreschi – per tenere le quote e portare a casa i risultati, abbiamo mantenuto stabili i prezzi. Una politica adottata da molti produttori. Che come noi hanno investito in ricerca, innovazione e qualità”. E dal canto suo l’Anci gioca la carta della promozione: insieme al Micam la fiera milanese diventata il punto di riferimento internazionale del settore, sta "esportando" la scarpa tricolore a Parigi, Bruxelles, Monaco di Baviera e Mosca. Senza contare il debutto nella tana del lupo: la Cina.

(Tratto da Affari&Finanza del 31.01.2005 “La scarpa in crisi punta su Europa e qualità” di Marcella Gabbiano)

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