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di Piero Maroni

CalpestioNel piccolo borgo di cinque case della Villagrappa, il tempo della battitura era uno dei momenti più attesi dell'anno, per chi non aveva altra attività che non fosse il bracciantato, erano queste, occasioni imperdibili. Mietitura e battitura garantivano buone entrate economiche e se fra i due momenti si riusciva a fare una buona spigolatura (a spighé) andando a raccogliere quelle spighe che erano casualmente rimaste nei campi dopo il raccolto, si potevano affrontare i prossimi, inevitabili tempi grami, con maggiore fiducia.

 La spigolatura era una delle risorse che fino ai primi degli anni cinquanta permetteva alle famiglie  di soddisfare, seppur parzialmente, i bisogni alimentari della casa. Appena i mietitori terminavano il taglio del grano, entravano nel campo mietuto anziane donne con bambini e bambine, la parte cioè meno attiva della famiglia, a setacciare palmo a palmo il campo per raccogliere quelle spighe rimaste sul terreno. Spesse volte i contadini permettevano la spigolatura solo a persone di loro conoscenza e di cui si fidavano perché c'era vivo il timore che per rendere più produttiva e agevole la raccolta si andassero a rubare le spighe nei covoni, tanto che si era il coniato il detto: “Spighé int i cuveun” (spigolare nei covoni).

Se la raccolta era stata intensa e fortunata si poteva anche racimolare un quintale e più di grano, che trasformato in farina diventava vitale per la vita della famiglia.

 In quegli anni, mio nonno Ambrosini, per tutti “e' gòb” (il gobbo) fungeva da caposquadra alla macchina da battere, era lui che assoldava uomini e donne per comporre il gruppo di lavoro e raccoglieva e gestiva i soldi che riscuoteva dai contadini a operazione effettuata. Non fu per lui un'esperienza fortunata, fiducioso verso chi glieli chiedeva, dava anticipi in denaro a quei pochi che ne facevano richiesta, poi però si dimenticava di registrarlo o di chiedere una firma di conferma e un anno, a fine lavoro, i conti non tornavano e chi aveva ricevuto i benefici in anticipo, negava di averli mai richiesti. Fu costretto a metterli di tasca sua attirandosi le pesanti ire dei figli adulti e da quella volta per la vergogna si diede a bere fino ad ubriacarsi spesso e smodatamente ed una sera peggiore delle altre fu colpito da un ictus e pochi giorni dopo perse la vita.

Machina da batLa macchina da battere era di proprietà della famiglia sammaurese dei Domeniconi di via XX settembre (i Zicunzèl), veniva data a noleggio ed era denominata “la zirandlòuna” (la girandolona). Si spostava da una casa contadina all'altra sul territorio comunale e per me bambino, quelle poche volte che mi si dava la possibilità di assistere, era un'autentica giornata di festa. Già vederla arrivare lungo la strada tra una nuvola di bianca polvere, metteva una piacevole eccitazione, dava l'idea di un gigantesco drago arancione con le fauci spalancate, al suo seguito una folla di persone, alcune a piedi, i più in bicicletta e tutti, uomini e donne, col fazzoletto al collo per coprirsi la bocca e il volto durante le fasi di lavoro e occhialoni neri da sole penzoloni sul petto o fissati attorno al largo cappello di paglia (la capèla).

  Piazzata la trebbiatrice accanto al barco e collegata la grossa cinghia al trattore, l'accensione del motore era il rito ufficiale che trasmetteva il movimento alle cose e ai corpi, si dava così inizio all'opera e il tutto assumeva l'aspetto di un formicaio al colmo dell'eccitazione.

  Mio nonno “Fanòin” (Giuseppe) era alla pula, il cappellaccio calato fino alle ciglia e il viso coperto per intero dal fazzoletto, solo gli occhi erano a volte scoperti, due piccole fessure, tanto che in mezzo a quella polvere e fumo stentavo a riconoscerlo; mia mamma stava alla paglia “a faè al furcaèdi”, era magra e minuta ma gonfiava tanto la sua forca che quando si avviava a consegnare il suo carico ai “pajarul”, quasi spariva sotto il cumulo inforcato, sembrava di vedere un mucchio di paglia che da solo attraversava l'aia e si dirigeva verso il pagliaio in costruzione.

  In mezzo a tutta quella confusione, noi bambini dovevamo stare sotto il portico dove non si correvano pericoli e non davamo fastidio, e qui ricordo che c'era Giulio 'd Zicunzèl, giovinetto e con spessi occhiali da vista, che registrava i quintali di grano su un quadernetto di scuola e quando si arrivava ai cento si festeggiava col suono prolungato della sirena che si perdeva nelle campagne lontane ad annunciare la fortuna di quella famiglia contadina.

 A soddisfare l'arsura di quei lavoratori, c'era “e' bivirul” (l'abbeveratore), lo chiamavano “Ciod” (chiodo=Rossi Angelo) e il suo compito era di avere sempre sui portapacchi della bicicletta, i contenitori colmi di acqua fresca e attinta alle fonti da versare a coloro che ne facevano richiesta ed erano, ovviamente tanti, dato il caldo e l'arsura provocata dal fumo che si alzava tutto intorno.

  Il lavoro durava dalla mattina presto sino alle prime ombre della sera con una sosta a mezzogiorno per consumare il pasto seduti per terra sotto qualche ombra fresca, per alcuni era la pasta asciutta oppure quadretti o maltagliati fatti in casa e cotti in un brodo di fagioli o piselli, che qualche familiare si incaricava di portare loro da casa, molti di più erano però quelli che consumavano ciò che si erano portati al mattino nella gamella, il recipiente di latta in uso ai soldati nel tempo della guerra, ed erano spesso gli avanzi della cena serale.

  Nel pomeriggio a volte faceva la sua presenza “e' zghin” (Violacci) col carretto dei gelati e un cono da cinque lire era, per me, la più felice e degna conclusione di quella giornata di festa.

  A casa intanto mia nonna provvedeva a riempire il mastello d'acqua che poi il sole avrebbe riscaldato per il bagno ristoratore dei due nostri “eroici” lavoratori che per i bisogni della famiglia avevano combattuto e vinto contro il drago di fuoco, una cena veloce e subito a riposare, perché all'alba si ripartiva. E questo per circa un mese, il tempo necessario per completare il ciclo della trebbiatura ed alla fine si riscuoteva il tanto sospirato e sudato salario .

Buona Pasqua 2024

Pubblicato il 26.03.2024 - Categoria: Vignette

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