L’era la ma ‘d Sigismondo e Novello Malatesta, du desqual, j avòiva e’ dieval madòs,
i n’andeva d’acord gnenca tra ‘d lòu, sina da burdel eun ‘d qua e clèlt ‘d là de’ fòs,
e da grend sempra pez, par faèi ste bun, eun a Remin e clèlt a Cesòina,
e la su ma, da la boilia ch’u j era ciap, la è vneuda a staè ma la Tòra, la puròina.
La steva a mità, cmè par doi che e’ ben par lòu l’era cumpagn e ch’in rumpes e’ caz,
che li la ni putòiva faè gnent s’j avòiva ciap tot da che sgudebal de’ su babaz.
Da chi dè Samaèvar u s’era slaèrgh e se ènca un s’pò doi ch’e fos zenta studiòusa,
la pròima ròba ch’i capet, e fot che staè sòta Savgnen, l’era una ròba stmagòusa,
pez d’ una zanzaèla ‘d nòta ch’l’an t fa durmoi e ch’la t cieula t’una urècia,
i s’era stof ad faèi da garzeun, is santoiva cmè s’j aves la murdècia.
E piò e pasaèva i dè e piò e carsòiva la voia ‘d stacaès e faè da par sé,
òs-cia sé, sé, snò che rivè a zcòr se’ sgnòur ‘d Remin l’era piòtòst cumplicaè,
mo quant ch’j avnet a savòi che ma la Tòra l’era vnu staè la su ma,
i s’frighet al maèni e i raviet s’una fata vergna fena ch’la n’aves smes ad doi ‘d na.
E lì, la purèta, us fa par doi parchè un gn’a mancaèva gnent par campaè in paèsa,
la zureva sòura la tèsta de’ maroid ch’la i l’avreb det la volta ch’u j avnoiva par caèsa.
Un dè u la vnet a truvaè in gran pressia parchè e’ dè dòp u j era una guèra da faè,
t’al maèni l’avòiva un vasèt ‘d mel busché da un cuntadòin ‘d Scurgaèda senza pagaè,
a lè l’andeva a to e’ sanzvòis, un pagaèva gnenca quèl e dal volti i i deva da magné;
èh, piò eun l’è sgnòur e piò ròbi i i rigala, dò pali i j avreb daè se fos staè un sgrazié!
Vest che che dè l’era in bona, la Tugnoza la panset ‘d doi sèl ch’e vlòiva i zitadòin:
“Cundin”, l’al ciamaèva acsè sina da quant ch’l’era znòin,
“a t’ò da dmandaè una ròba, basta però che t’an t’incaza,
cmè che t fé gambadgnent quant che mal ròbi ta ni pu faè faza,
u j è chi spacamareun de’ ghèt da què ch’i ven da mè tot i de’ dla stmaèna,
is vo stacaè da Savgnen parchè i doi che a lasò ma lòu i ni chega e i vo una maèna!”
“An sò moiga un splorcc cmè quèl ‘d Cesòina mè, vut che ma tè a pòsa dì ‘d na,
quèl che t vu, a te dagh, ènca s’al sò che t vu piò ben ma clèlt, mo t ci sempra la mi ma!
E pu fròiga un caz ‘d Samaèvar, a ne sò gnenca ch’ui sipa, ch’i faza sèl ch’ui paèr,
doili però ch’j à da daè e’ tu num m’una vì e in sa da scurdaè ‘d tè te’ su patèr.”
Che fèsta e’ dè che la j e get mi samavrois, tot s’una maèna puzaèda a mità ‘d clèlt braz,
zirat vers Savgnen se’ pogn ceus i rugiòiva: “Tòh, avì finoi ‘d faè i padreun si puraz!”
A simi 't e' melaquatarzent e l'umbrèla in la j avòiva ancòura invantaèda,
lòu i ne savòiva che pu e saria dvent “Il gesto dell'ombrello”, sta ròba strulgaèda.
Antonia da Barignano
Era la mamma di Sigismondo e Novello Malatesta, due discoli col diavolo addosso,
non andavano d’accordo tra loro, sin da bambini uno di qua e l’altro di là del fosso,
e da grandi sempre peggio, per farli star buoni, uno a Rimini e l’altro a Cesena,
e la mamma, poverina, venne ad abitare alla Torre, perché era presa da gran pena.
Stava a metà, a dire che il bene era lo stesso per entrambi e non rompessero il cazzo,
che lei non ci poteva fare niente se avevano preso da quel suo babbo un po’ pazzo.
Allora San Mauro si era allargato e se pure non si può dire che fosse gente studiosa,
la prima cosa che capirono, fu che stare sotto Savignano era una cosa obbrobriosa,
peggio di una zanzara che di notte che non ti fa dormire e ti ronza in un’orecchia,
si erano stancati di fare i garzoni, si sentivano come se avessero la mordacchia.
Più passavano i giorni, più cresceva la voglia di fare da sé in un paese liberato,
ostia sì, solo che arrivare a parlare col signore di Rimini era piuttosto complicato,
ma quando vennero a sapere che alla Torre era venuta ad abitare sua mamma,
si fregarono le mani e presero a lamentarsi affinché si fosse realizzato il programma.
E lei, la poveretta, si fa per dire, non le mancava niente, per campare agiatamente,
giurava sulla testa di suo marito che glielo avrebbe detto prossimamente.
Un giorno venne a trovarla in fretta perché il giorno dopo c’era una guerra da fare,
in mano aveva un vasetto di miele avuto da un contadino di Scorticata senza pagare,
lì andava a prendere il sangiovese, non lo pagava e trovava anche il cibo preparato;
più uno è ricco e più cose gli regalano, nulla avrebbe ricevuto se era un disgraziato!
Visto che quel giorno era di buon umore, Antonia osò dirgli la richiesta dei cittadini:
“Mondino”, lo chiamava così sin da quando i figli erano piccini,
ti devo chiedere una cosa, però non ti devi arrabbiare,
come fai spesso quando le cose non riesci pienamente a padroneggiare,
quelli del ghetto vengono da me tutti i giorni, si vogliono staccare da Savignano,
dicono che là non li tengono in considerazione e vogliono che dia loro una mano!”.
“Non sono mica un tirchio come quello di Cesena io, vuoi che a te possa dire di no, ciò che tu vuoi, te lo do, pur se vuoi più bene all’altro, ma sei mia mamma, io lo so!
E poi frega un cazzo di San Mauro, non so neanche che esista, sia fatto il loro volere,
però devono dare il tuo nome ad una via e non ti devono scordare nelle preghiere.”.
Fu festa quando lo disse, tutti con una mano appoggiata a metà dell’altro braccio,
urlavano verso Savignano: “Toh, basta fare i padroni col popolo poveraccio!”.
Eravamo nel millequattrocento e l'ombello non l'avevano ancora inventato,
loro ignoravano che sarebbe divenuto “Il gesto dell'ombrello”, ciò che si era usato.
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