di Piero Maroni
I significati del carnevale sono davvero tanti, come tante sono le ipotesi circa la sua origine, che per i più è da riferirsi al tempo della Roma antica allorché si celebravano i Saturnali, i Lupercali e altre feste ed era il periodo in cui si consentiva il temporaneo scioglimento dagli obblighi sociali e dalle gerarchie per lasciare posto al rovesciamento dell’ordine costituito, allo scherzo e alla dissolutezza, tanto che il servo poteva diventare padrone, almeno simbolicamente, e viceversa.
Queste feste avvenivano per le strade di Roma già con maschere che rappresentavano in embrione quelle che poi divennero di uso comune. Le feste sacre a Saturno, Padre degli Dei, venivano celebrate in marzo e duravano circa sette giorni. In quei giorni gli schiavi diventavano padroni e i padroni dovevano subire, tranne poi rifarsi alla fine della festa!
Le prime maschere furono in realtà dipinte sul viso con feccia di vino (il residuo della fermentazione del vino) e succo di more e solo in seguito furono fatte con corteccia di alberi, legno e cuoio. La maschera serviva probabilmente per nascondere il viso e potersi dare ad ogni genere di nefandezze senza tema di venir riconosciuti e così si passavano dei giorni in indicibile baldoria.
Con il Cristianesimo si cercò di depurare queste feste da tutto ciò che sapeva di pagano, ma inizialmente non fu facile porre freno alla lussuria e alla sfrenatezza dei sensi, poi col passar dei secoli, le feste persero sempre più il loro carattere profano, ciò nonostante le feste di Carnevale conservarono un sapore grossolano e godereccio che portava a galla quanto di pagano era rimasto ad intorbidare i sogni dei cristiani.
Nel passato molto remoto, questa festa si ricollegava anche ai riti della fecondità della terra, che doveva svegliarsi dopo il sonno invernale e, come accade ancor oggi seppur in forma assai contenuta, questa ricorrenza era legata indissolubilmente all’allegria, al riso, che allontanava il male, il lutto e la morte attraverso danze, burle, scherzi.
Affermando che "a Carnevale ogni scherzo vale", si vivevano giorni all'insegna della sregolatezza, delle burle, delle mascherate danzanti, della gioia sfrenata. Le feste di Carnevale erano occasione di divertimento esagerato e di grandi mangiate, di qui i giorni detti “grassi”, con evidente riferimento alla qualità dei cibi, che andavano dal giovedì al martedì successivo.
Nel Medioevo “Il re del Carnevale” garantiva l'allegria pazza e la sospensione temporanea delle leggi, delle regole e della morale. “Semel in anno licet insanire”, (una volta in un anno è lecito impazzire), si affermava. E così i ruoli sociali si invertivano: gli uomini si vestivano da donne e viceversa, i poveri da ricchi, i ricchi da accattoni o da giullari, come accadeva nella Roma antica durante i Saturnali. In questo breve lasso di tempo il caos sostituiva l’ordine sociale che, esaurita la festa, ritornava però nuovo e rinnovato.
L'arciprete della parrocchia forlivese dei Romiti, in risposta al questionario napoleonico del 1811 scriveva: “In tempo di Carnevale i contadini fanno delle adunanze reciproche or in una, or in un’altra casa, che loro chiamano i trebbi: stanno allegri fanno giuochi e quelli che hanno denari giuocano alle carte. E poi fanno le feste di ballo in quelle case dove sono le giovani che hanno gl’amanti, che a queste feste corrono a gara da tutte le parti, e starebbero come suol dirsi sul fuoco per ballare, anco non dico la gioventù, ma le persone più anziane.”.
Ma è questo anche il tempo del passaggio dall’inverno all’energia primaverile ed anticamente si credeva che fosse anche il periodo in cui si apriva il passaggio tra il mondo dei vivi e dei morti che ritornavano nel mondo abitato, e si dovevano festeggiare per non farli diventare ostili e siccome non avevano corpo si prestavano loro dei corpi provvisori: le maschere, lo dimostrerebbe il fatto che i primi vestiti da maschera fossero in realtà solo dei camicioni bianchi.
Le maschere, dunque, erano i morti che tornavano a fraternizzare allegramente coi vivi perché il caos aveva distrutto ogni frontiera e ogni modalità, alla fine tutto si ricomponeva e terminava col “funerale del carnevale” spesso raffigurato da un fantoccio a cui veniva appiccato il fuoco. Ancora oggi si usa dire: “Sploi e’ carnavaèl!” (Seppellire il carnevale!).
Negli ultimi giorni di Carnevale era tradizione che le persone mascherate, andassero nelle case a portare auguri di fertilità e fecondità ricevendo in cambio cibo e vino. Era praticamente una cerimonia in cui i defunti davano la benedizione alle famiglie e alla comunità, tramite la maschera che, come detto, rappresentava un ponte tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Sempre l'arciprete dei Romiti aggiungeva: “Alcuni uomini più furbi, ed avveduti in tempo di Carnevale vanno in maschera, che la maschera di campagna consiste in una camicia bianca posta sopra i panni con un bastone in mano, e nulla altro.”
“Li detti mascherati,” prosegue il forlivese Placucci nel 1818, “che chiamansi “vecchia”, o “andare in vecchia”, girano per la villa, andando per le case, e gridando: Jò la povra veccia, cioè, Oh! là, è qui la povera vecchia; e tutti li contadini sortono di casa, e danno ad essi pane, vino, carne, uova, e formaggio: questi mascherati in allora gridano: ca bona per la povra veccia, jò, jò; che equivale a: buona è questa casa per la povera vecchia, oh! oh!; che se all’opposto non ricevono simili regali, gridando: ca bruseda, jò, jò, cioè: casa spiantata, oh! oh!; tali mascherate poi ordinariamente vanno a finire in una famosa “gatta”, come sogliono dire, cioè in una ubbriachezza.”
Le ragazze da marito nei giorni di carnevale avevano più occasioni, che negli altri periodi dell’anno, di trovare il moroso e probabilmente per facilitare la cosa a San Mauro si inventò “E' vigliòun di Faroqual” (Il veglione dei Faroccoli). Giovanni Mazzotti nel libro fotografico edito nel 2000 con Romano Pizzinelli e intitolato “Il Veglione dei Faroccoli”, data la sua nascita ai primi del Novecento, si svolgeva il lunedì grasso e vi potevano partecipare 50 coppie non sposate. Era un avvenimento molto sentito nel paese, ma nel 1960 con la possibilità per i giovani di spostarsi altrove grazie al diffondersi dell'uso delle moto e delle auto, il Veglione esaurì il suo scopo e mai più lo si organizzò.
Il termine Carnevale deriva, probabilmente, dal latino “carnem levare” (eliminare la carne) per far posto alle nuove provviste o anche col significato di eliminare la carne dalla dieta abituale, in quanto per il cristianesimo al periodo del divertimento e della gozzoviglia seguiva la quaresima, così il martedì grasso (e' mert lov) era l’ultimo giorno concesso per riempirsi lo stomaco a dismisura, tanto che per usanza si doveva mangiare 7 volte e uccidere la gallina più vecchia del pollaio come segno di rinnovamento e se non lo si faceva si correva il rischio di trovarla morta l'indomani, se non addirittura morte tutte le galline; nello stesso giorno le donne non filavano la rocca per non pregiudicare il raccolto della fava seminata nei campi.
Tradizionalmente nei paesi cattolici, il Carnevale ha inizio con la Domenica di Settuagesima (la prima delle nove che precedono la settimana santa secondo il calendario Gregoriano) e finisce il martedì precedente il Mercoledì delle Ceneri che segna l'inizio della Quaresima, i proverbi popolari però lo fanno iniziare dal Natale o addirittura dall'Epifania.
Chi ch’un bala par carnavaèl o ch’l’è mort o che sta maèl.
Chi non balla per carnevale o che è morto o che sta male.
La galòina ad carnavaèl s’la n’ s’ magna la va da maèl.
La gallina per carnevale se non la si mangia va a male.
Coi ch’us maroida maèl un fa mai carnavaèl.
Chi si marita male non fa mai carnevale.
Coi che ad Nadaèl un foila, par Carnavaèl e suspoira.
Chi per Natale non fila, per Carnevale sospira.
Dop Nadaèl tott i dè l’è Carnavaèl.
Dopo natale tutti i giorni è Carnevale
Par la Pasquetta, Carnvaèl e’ sbachèta.
Per la Pasquetta (Epifania), Carnevale sbacchetta (comanda).
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