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di Piero Maroni

Maiale 2Ad onor del vero, c'erano dei giorni che invece non erano indicati per uccidere il maiale, la luna aveva un ruolo  importante, doveva essere nuova o in fase calante; un altro giorno da cancellare era il venerdì e bisognava evitare il 13 e il 17 del mese altrimenti col tempo la carne non si conservava e tendeva a deperire. C'era poi un curioso detto: “Se quando uccidi il maiale e la padrona ha il suo ciclo mestruale, mandala a spasso per il paese” (Se quant t' maz e' porch e l'azdòura la j à e' su mòis, mandla a spas par e' pajòis), perchè se toccava la carne, si riteneva che andasse a male.

Intorno all'uccisione del maiale tanto si è detto e tanto si è scritto, chi lo ha definito un sacrificio, chi una festa, i più lo hanno definito un rito, quasi fosse una funzione religiosa.  Tutto è possibile, ma non vi è alcun dubbio che per le consuetudini contadine uccidere il maiale rientrava in quella sequenza di lavori che non ammettevano deroghe, perché nel ciclo della  natura, per tutti, persone, animai e cose, quando giungeva la loro stagione, si chiudeva la permanenza su questa terra. Nel mese di giugno il grano era da mietere e poi da trebbiare, in settembre si vendemmiava, per San Martino si travasava e si beveva il vino nuovo e quando giungeva la stagione fredda, si ammazzava il maiale.

 

  Il giorno fatidico la gente della casa era al colmo dell'eccitazione, sin dalla mattina presto le donne avevano messo a scaldare l'acqua nella caldaia, gli uomini arrotavano i coltelli e preparavano le funi per tener ferme le zampe posteriori (al zamparoli) e quanto tutto era in ordine si andava a prendere il maiale nel porcile. Ma neanche a farlo apposta, quella mattina non voleva uscire, che avesse inteso che quello per lui era un brutto giorno? E così uno lo tirava per le orecchie, un altro lo spingeva facendo pressione sul posteriore e lui, imbestialito, lanciava delle strida così acute che  assordavano. Ohi, la volete sapere tutta? La gente rideva!  Ma non era cattiveria, tutti erano consapevoli che quello era il suo destino inevitabile, l'avevano comprato e allevato per quel momento ed ora erano certi che era giunto come da lontani tempi si usi fare. Lo sapevano che era una pratica che poteva suscitare sentimenti di sgomento, tanto che c'era chi non voleva che i bambini assistessero perché se si spaventavano, al maiale si poteva gelare il sangue e avrebbe stentato a morire e a loro poteva smuovere la verminazione. E non si dovevano neanche proferire parole di compassione per l'animale, perché gli si allungava l'agonia.

  E così, tra una risata e una bestemmia, il maiale veniva fatto sdraiare sopra una scala appoggiata sul cassone (la matra) sistemato sotto il portico. A farlo cessare di urlare ci pensava il più abile degli uomini che gli infilava un coltello lungo e appuntito (e' scanein) nella gola e con un colpo da esperto lo scannava. Immediatamente  il sangue schizzava a fiotti, ma la padrona prontamente lo raccoglieva in una larga zuppiera della cucina e non lasciava cadere neanche una goccia, un paio di giorni dopo se lo sarebbero mangiato cotto nella padella con le spezie adatte e un'abbondante manciata di cipolla.

  Intanto che l'animale esalava gli ultimi respiri, si iniziava a raschiare il pelo con degli affilati coltelli panciuti (i panzarot) dopo avergli bagnato la pelle con acqua bollente. Le setole non si gettavano via, le adoperavano i ciabattini di San Mauro per cucire le scarpe, ma l'ultimo pezzetto della coda non si rasava, si tagliava e si buttava sopra il tetto del porcile per propiziare l'arrivo del nuovo maiale. Peli, unghie, denti e ossa, si raccoglievano e si vendevano agli straccivendoli di Gambettola per farne pennelli e bottoni, perché, come si diceva: “Del maiale non si butta via niente” (De' bagòin un s' bota vì gnent).

  Lucido come una testa senza capelli, lo appendevano ad una trave del portico legato per le zampe posteriori, poi l'aprivano completamente e pezzo per pezzo gli asportavano il cuore, il fegato, i reni, lo stomaco, le budella, la vescica e tutto ciò che vi era da prendere. La vescica si gonfiava come un pallone, la si collocava all'aria per farla asciugare e più tardi la si riempiva col grasso del maiale ucciso. Le interiora si rivoltavano, svuotate e lavate venivano utili per insaccare la carne macinata e insaporita dei cotechini, salsicce e salami. Terminate queste operazioni, lo si spaccava in due parti uguali e le due mezzane si appendevano nel posto più fresco disponibile, un paio di giorni dopo si sarebbero messi a lavorare la carne.

  Superato il giorno della morte, ora era il giorno della festa. Si lavoravano le carni del maiale, oggi si mangiava bene e la cantina si riempiva di cose buone per l'anno che arrivava. Il grasso, sciolto sul fuoco, andava a riempire la vescica ed era da conservare in un luogo fresco, sostituiva l'olio in cucina ed era un ingrediente importante per la piadina, ciò che ne restava si usava per confezionare i ciccioli. Era questo il momento per preparare i prosciutti e le golette, che finivano appese ad una trave coi salami, la salsiccia, le coppe e, per un po', anche i cotechini. In mezzo a tanta concitazione, c'era sempre il tempo per far cadere un braciola sulla graticola stesa sui carboni del camino fumante.

  Ma non era mica tutta qui la riserva di carne, c'era la trippa da cuocere nel tegame di terracotta, i fegatelli, la pancetta e le costolette da stendere sulla graticola, le cotiche da mischiare ai fagioli e la coppa di testa, così gradevole che ne bastava una fetta da mettere tra la piadina e ti facevi una mangiata coi fiocchi.

 “A farsi la barba si sta bene un giorno, a prendere moglie si sta bene un mese, ad ammazzare il maiale si sta bene un anno” (A faès la baèrba us sta ben un dè, a ciapaè mòi us sta ben un mòis, a mazaè e' bagòin us sta ben un an), così si diceva allora e sì che si era soddisfatti.

  Anno dopo anno, la storia era sempre quella, non mutava mai perché così avevano operato i loro padri, i loro nonni, i loro bisnonni e tutti coloro che erano venuti prima.

 Chissà per quante migliaia di anni uomini e maiali hanno vissuto insieme in un reciproco scambio di favori, uno gli forniva rifugio e lo allevava e l'altro, anche se probabilmente non era affatto d'accordo, gli forniva la buona carne per sfamare la famiglia. Poi però è giunto il progresso e ha cancellato tutto ciò che c'era prima, noi siamo cambiati e anche il maiale non è più quello di una volta.

 Adesso del maiale conosciamo il prosciutto, il salame, la salsiccia e tutte quelle buone cose da mangiare e sono tante, ma il maiale non lo conosciamo più, i bambini che nascono in questi tempi, bene che vada, ne vedranno qualche esemplare alla televisione, nelle fotografie, nei computer, ma dell'animale e della sua storia non ne sapranno niente e se per caso capiterà un giorno di incontrare uno che gli racconta la vita del maiale, sembrerà loro di ascoltare una di quelle favole che una volta i nonni raccontavano ai bambini.

  A seguire il racconto di questa storia con lo spirito dell'oggi, a molti parrà di una tragica crudeltà; nei tempi del veganismo, del vegetarismo, delle cliniche e dei cimiteri per cani e gatti, delle relazioni iperaffettive con gli animali domestici, raccontare la morte del maiale può sembrare un esercizio di puro cinismo, ma ciò di cui parliamo è figlio di un altro tempo, un tempo in cui uomini, animali e natura seguivano lo stesso identico ciclo di vita e di morte, secondo ritmi e consuetudini che altri uomini, in tempi remoti e smarriti nella storia,  avevano per loro tracciato.

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