di Piero Maroni
Il 2 febbraio del 1909 a San Vito, piccola frazione di Rimini accanto cui scorre l’Uso, accadde un grave fatto di sangue. La storia inizia con una manifestazione di propaganda politica che il Partito Socialista teneva nel vicino borgo nel mese di gennaio e che doveva concludersi con un comizio del dott. Carbonetti, negli anni precedenti medico condotto a San Mauro e protagonista di furibondi scontri politici con gli avversari.
Il piazzale su cui si teneva la manifestazione era situato poco distante dalla chiesa così che l’inizio del discorso fu accolto dai fischi di alcuni parrocchiani e poi lungamente disturbato dal suono della campane che il cappellano 42enne don Gisleno Farina, detto Ismaele, suonava a distesa e rendevano di difficile comprensione la parole dell'oratore malgrado urlasse con tutto il fiato che aveva in gola.
L’affronto fu mal digerito dai socialisti, tanto che decisero di marciare su San Vito il 2 febbraio accompagnati dal suono della fanfara per vendicarsi dello sgarbo subito.
La manifestazione, come la precedente, si svolse poco lontano dalla chiesa e gli animi si surriscaldarono per le vibranti parole dell’oratore Giulio Tognacci (e' mèstar Giulio) e per il vino della locale vicina osteria.
Al termine della manifestazione, verso le 17, i socialisti sammauresi presero la via del ritorno ebbri di passione e alcol.
Proprio in quell’ora uscivano però i fedeli dalla chiesa che avevano assistito alla benedizione delle candele e che furono accolti con l’Inno dei Lavoratori e grida e canzoni anticlericali. L'arciprete tentò di rabbonirli invitandoli a moderare i termini, ma questi risposero che non ce l'avevano né con lui, né coi suoi parrocchiani, ma solo con “quel codardo del cappellano”.
Questi però, per tutta risposta e in segno di sfida, si fece avanti facendo loro le corna con le dita della mano. Come prima risposta seguì una fitta sassaiola che non turbò più di tanto l’indomito cappellano il quale con l'aiuto di alcuni fedeli rigettava i sassi sul socialisti, allora dal gruppo dei sammauresi si staccarono in 4-5 armati dei loro strumenti musicali decisi a dare una lezione al prete una volta per tutte.
Lo scontro si mise subito piuttosto male per il cappellano che si prese una trombonata in faccia all'altezza del setto nasale, ma levatosi la veste talare per muovere più agevolmente le braccia, trasse di tasca una pistola e sparò un colpo che colpì in fronte Federico Soci. Ne sparò un secondo e colpì di striscio ad una spalla Primo Parenti e un terzo colpo che andò però a vuoto. La rissa ebbe termine e i socialisti portarono via i feriti mentre il cappellano si diede alla latitanza.
Il 5 marzo Federico Soci cessava di vivere in conseguenza della ferita riportata, aveva 49 anni e 5 figli.
Nel paese, e non solo, le polemiche e le accuse al mondo clericale, raggiunsero punte estreme, i muri furono tappezzati di manifesti di denuncia ad opera dei socialisti e dei repubblicani, si definiva l'omicidio come l'opera di un traditore di Cristo e additato alla pubblica vergogna come una “belva pretesca”.
Due mesi dopo don Farina si costituì, intanto il Pretore di Santarcangelo mandò avanti la causa contro i 12 suonatori della fanfara socialista che furono multati di lire 10 ciascuno più il pagamento delle spese processuali per non avere avvisato le autorità della manifestazione.
Il 29 aprile 1910 nel processo celebrato a Modena, perché Forlì era ritenuta dall'autorità giudiziaria, una piazza troppo orientata verso i socialisti e si temevano tumulti, don Gisleno Farina, detto Ismaele, fu assolto per legittima difesa.
Per meglio comprendere l'esito di questo processo, val la pena ricordare che nel 1909 per la prima volta nella storia italiana i cattolici scesero nell'agone politico con la benedizione di papa Pio X e affrontarono le elezioni al fianco dei liberali, che già erano al governo con Giovanni Giolitti, per contrastare in particolare il crescente favore che ottenevano socialisti, marxisti e anarchici. Tutti i candidati di provenienza cattolica furono eletti riscuotendo un notevole successo, così che nel 1913 si giunse al patto, chiamato Gentiloni, dal nome del suo promotore, che sancì in maniera definitiva lo schieramento dei cattolici col partito liberale in opposizione a socialisti e repubblicani.
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