di Piero Maroni
La vita dell’uomo, specialmente quella del montanaro, in particolar modo sull’arco alpino e appenninico, è da sempre strettamente legata alla presenza del castagno nel paesaggio agrario. Durante il Medioevo e nell’epoca Moderna, i montanari fondavano un nuovo villaggio solo laddove il castagno poteva crescere e dare legname e frutti, indispensabili per le esigenze quotidiane (alimentazione, riscaldamento, costruzioni). Nei secoli passati la coltura ha sviluppato una vera e propria “Civiltà del castagno”, ricca di usi e tradizioni, perdurata fino a metà del secolo scorso che ha, fra l'altro, generato tutta una serie di modi di dire.
Ad esempio: “essere presi in castagna” (quando si viene colti in fallo), “essere come la castagna” (ovvero, apparentemente virtuosi invece guasti interiormente), “tirare una castagna” (sferrare un colpo molto forte), “avere una castagna in bocca” (cioè pronunciare male le parole come se si avesse in bocca una castagna bollente), “togliere le castagne dal fuoco” (ossia trarre d’impaccio qualcuno). Intorno a questa locuzione, il favolista francese La Fontaine ha costruito una simpatica favoletta.
Una scimmia e un gatto stanno davanti al fuoco e guardano con l'acquolina in bocca una bella manciata di castagne che arrostiscono sulle braci. "Ah - dice la scimmia - se io avessi una zampetta adatta come la tua! Non resisterebbero a lungo, quelle castagne!". Il gatto non se lo fa ripetere due volte: con la sua zampetta, delicatamente, rovista un po' nella cenere, poi la ritira per non scottarsi, poi dà un'altra zampata e in questo modo, a poco a poco, fa cadere dalle braci ben tre castagne, che la scimmia si affretta a sgranocchiare. Sopraggiunge però una domestica, l'operazione deve essere sospesa e il povero gatto, dopo aver tolto le castagne dal fuoco a beneficio della scimmia, rimane a bocca asciutta.
Tutto ciò per ribadire quanto sia popolare la castagna che nel passato (neppure tanto lontano) ha sfamato intere generazioni di poveri contadini e montanari fino a meritare d'essere definita “il pane dei poveri”.
Con la farina di castagne si preparava una polenta che ha preceduto di secoli, o forse di millenni, quella di granturco.
Prima della scoperta dell'America, quando in Europa non esistevano ancora le patate né il mais (materia prima della polenta), la castagna era infatti l'alimento che più di ogni altro preservava dalla fame e permetteva di superare i periodi di carestia.
La pianta, introdotta in Europa con l’Impero Romano, ha avuto un grande impulso, cresce nelle regioni montuose temperate ed è coltivata fra i 300 e i 1000 m di altezza.
È un albero longevo, alto in media dai 15 ai 20 metri, ma capace di raggiungere i 30–35 metri e 6–8 metri di circonferenza. Il frutto è incluso in una cupola irta di spine, il riccio. La forma delle castagne è determinata dalla posizione all’interno del riccio: semisferica per i frutti laterali, appiattita per quello centrale. Possono essere selvatiche o domestiche. Quelle selvatiche sono piccole, hanno un peso minore ai 10g, sono poco dolci e una pellicola difficilmente staccabile, le domestiche hanno un peso intorno ai 20g, dolci e a pellicola facilmente staccabile, si ottengono da una pianta coltivata e migliorata con successivi innesti ed ogni riccio contiene un solo frutto, il marrone.
La produzione massima si ottiene a 80-100 anni di età, si tratta infatti di piante longeve, e non pochi sono gli esemplari ultracentenari che sono stati individuati.
Fra i più famosi si ricorda il Castagno dei Cento Cavalli ubicato nel parco dell’Etna, in Sicilia, un enorme albero, di 22 metri di diametro e 22 metri di altezza il cui tronco cavo ha dato adito ad una curiosa leggenda che si narra in quei luoghi.
Racconta che in una notte tempestosa di almeno 500 anni fa, vi trovò riparo al suo interno la Regina Giovanna I d’Aragona con tutto il suo seguito di cento cavalieri, dame e cavalli, si aggiunge pure, maliziosamente, che durante la notte la regale signora si sollazzò con più cavalieri sotto le fronde del castagno.
Sono pure sorte altre leggende intorno al castagno, in una si narra che gli uomini della montagna, esasperati dalla scarsità di cibo, decisero un giorno di scendere a valle dove tanti e fecondi erano i frutti della terra. Sant’Ubaldo però tentò di convincerli che a valle vi era sì abbondanza di cibo, ma anche nebbia e malaria. I montanari non vollero ascoltarlo, così il santo pregò Dio sotto un grande albero affinché mandasse a quella gente il pane. Subito dall’albero si staccò un frutto che cadde al suolo, ma era ricoperto di spine. S. Ubaldo benedisse la piccola sfera spinosa e quella improvvisamente si aprì a croce svelando tre piccoli frutti scuri e rotondi, le castagne appunto che consentirono a quella gente di sfamarsi.
In un'altra invece si fa risalire a San Benedetto l’apertura dei ricci. Per ascoltare le preghiere delle popolazioni affamate il santo benedì i ricci chiusi delle castagne e questi si aprirono immediatamente con un'apertura che richiamava il segno della Croce.
Le castagne sono tipici prodotti autunnali, a maturazione ultimata cadono spontaneamente dall’albero e il periodo di raccolta va da settembre fino a dicembre.
Come succede in tutte le realtà afflitte dalla povertà e dal bisogno, le fonti di sostentamento a disposizione vengono sfruttate in ogni loro componente, e così è successo anche per il castagno, del quale “non si butta via niente”. Il legno oltre che essere impiegato come legna da ardere e da costruzioni, era anche destinato all’ottenimento di un carbone di ottima qualità, che può raggiungere temperature in grado di fondere il ferro.
Per la capacità dei suoi frutti di sfamare intere popolazioni montane, il castagno si avvalse del titolo di albero del pane: le castagne bollite (al balosi), arrostite, inzuppate, essiccate e trasformate in farina, erano alla base di molte ricette antiche, sopravvissute ancora oggi nella tradizione popolare.
Alcuni detti antichi suggerivano di far dormire i bambini in culle fatte di castagno per farli crescere forti e sani, in quanto l'albero possiede la proprietà di allontanare gli spiriti in modo da permettere sonni tranquilli.
Nella tradizione popolare italiana, il castagno è simbolo di previdenza e generosità, per la sua capacità di donare frutti in grado di garantire un sostentamento per l’intera stagione invernale.
Antica è pure l'usanza di consumare castagne durante il giorno dei morti e di lasciarne alcune sul tavolo della cucina come cibo per i defunti.
Nella mia infanzia la sera della festività di tutti i santi, era consuetudine arrostire le castagne sul piano della stufa accesa dopo averle castrate perché non scoppiassero, con un apposito attrezzo (e' castròin) una specie di roncolina, con la lama di un centimetro e col 'rostro' all'ingiù. Appena terminata la cena, mio babbo provvedeva a dividere le castagne in numero esattamente uguale per ogni componente della famiglia. Ma neanche il tempo di mangiarne un paio, che ci si doveva concentrare sulla recita del rosario scandito da mia nonna e che allora mi sembrava durasse all'infinito, a cui seguivano le noiosissime, interminabili litanie di cui ricordo uno scappellotto elargitomi da mia mamma che aveva sentito bene che invece di rispondere: “Ora pro nobis”, ripetevo continuamente : “Un panòcc...un panòcc...”.
Per tutta quella sera le castagne rimanevano ammucchiate davanti a me, ma non si potevano assolutamente mettere in bocca perché, sempre a dire di mia nonna, in questo modo il rosario andava a favore solo di coloro che erano morti per un eccesso di cibo (sicuramente rarissimi in quei tempi) e neanche si poteva bere perché, in questo caso, la preghiera andava solo a favore dei morti affogati. E intanto le castagne si raffreddavano sotto lo sguardo dei miei occhi vogliosi. Mangiatele calde, se potete!
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